Per una volta, in un mondo per molti versi indecifrabile e comune sempre complicato, c'è qualcosa che sembra abbastanza facile (che non vuol dire banale) da comprendere: l'analisi del voto di domenica 25 settembre 2022. Alcune tendenze, alcune dinamiche, sono talmente leggibili da non poter essere percepite se non da chi non le voglia vedere, con ostinazione più o meno interessata.
Una prima evidenza riguarda quello che potremmo chiamare il partito dei non votanti. Il fatto che quasi il 40% degli italiani abbia rinunciato all'esercizio di questo diritto-dovere non può essere liquidato come una forma di immaturità da parte di chi ha fatto questa scelta: l'astensionismo ha un significato politico e ci parla di una politica che ha perso una parte importante della propria credibilità. È compito della politica stessa cercare di recuperarla, anche se si tratta di una tendenza comune a tutte le democrazie mature e quindi, almeno in parte, di una tendenza strutturale. Una democrazia matura è anche, per certi aspetti, una democrazia “stanca”, che non attribuisce più valore e significato a momenti che percepisce come rituali e non come essenziali. Anche in chiave elettorale questa circostanza ha delle conseguenze: se, infatti, prima delle elezioni si pensava che la differenza l'avrebbero fatta gli indecisi, cioè coloro che, in prossimità del voto, non sapevano ancora per chi avrebbero votato, nel dopo-elezioni si può sostenere che l'incertezza non si è trasformata in una decisione in extremis, ma è diventata semplicemente la scelta di non votare. Queste riflessioni ci portano anche a considerare la crisi dei partiti tradizionali: tramontata la forma e scomparso il ruolo che avevano nella Prima Repubblica, hanno perso la loro capacità di mobilitazione e di rappresentanza, che ora è sempre più legata ai leader e alla non sempre lineare fortuna, diventando sempre più coalizioni provvisorie, cartelli, intese elettorali.
Una seconda considerazione è quella che ci parla di un voto “infedele”, cioè di un voto che non è più legato in maniera quasi definitiva a un'ideologia, a un orientamento politico o a un'area di appartenenza, ma si sposta e, per così dire, si travasa da un segmento all'altro del panorama politico. In questo senso, si può forse dire che fare opposizione è più premiante, elettoralmente, che stare al governo, dal momento che governare significa decidere e decidere significa sempre e necessariamente scontentare qualcuno, soprattutto in un presente così complesso, nel quale le decisioni non sono mai giuste o sbagliate, ma hanno in sé una contraddizione: sono, se così possiamo dire, giuste e sbagliate nello stesso tempo, da differenti punti di vista.
Un ultimo aspetto sul quale riflettere – avvicinandoci al contesto trentino, che più direttamente ci interessa – è costituito dal valore delle coalizioni. Si sono viste almeno due cose. La prima è che il valore della coalizione è superiore a quello della somma delle parti che la compongono. Una coalizione “imperfetta”, nel senso di incompiuta, ha portato, come si è visto, a un risultato elettorale abbastanza lontano dall'ottimale. Una coalizione è simile all'arco di pietre descritto da Italo Calvino ne Le città invisibili: in un arco, scriveva, ogni pietra tende a cadere, ma proprio per questo l'arco sta in piedi. La seconda constatazione è che, quando si va da soli, si va poco lontano. Ogni scelta, naturalmente, è legittima. Però anche i fatti, come diceva Hannah Arendt, hanno un loro ostinato esser lì.
(3 ottobre 2022)